Ester Conte
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01 Aug
01Aug

Brano musicale consigliato: Caronte - Infernum, Murubutu

Non so con precisione come sono arrivata sulla sponda di questo lago, eppure ne riconosco le sembianze. Scandaglio, disegnando un anello nell’aria, ogni singolo particolare di ciò che mi circonda: la strada bianca sotto i miei piedi, la fitta vegetazione, il frinire intermittente delle cicale, nell’acqua il riflesso stagnante del paesaggio che mi circonda. Eppure a catturare la mia attenzione è quello che, nell’immaginario collettivo, definiremmo un relitto, un barchino abbandonato che sosta a poca distanza da me. Lo osservo con cura, e la vista di quel rudere suscita in me un miscuglio di sensazioni, un profondo senso di angoscia e, al contempo, una inaspettata pace interiore. Il flusso di pensieri viene interrotto da una voce incalzante e persuasiva

“sali pure, non avere timore, c’è ancora posto”

Le parole provengono da un uomo di mezza età, apparso all’improvviso dall’interno del piccolo barchino.


Il sole sfiora l’orizzonte, mentre l’oscurità della notte avanza con passo inesorabile. Lancio uno sguardo intorno, nel tentativo di individuare a chi fossero rivolte quelle parole appena udite. La solitudine intorno a me parla chiaro: non ho dubbi, erano destinate proprio a me.  Anche se le circostanze suggerirebbero di ignorarlo, qualcosa dentro di me prende il sopravvento, e finisco per accogliere quell’invito. Intuisco sin da subito che questo viaggio non sarà solo un passaggio verso l’altra sponda del lago, ma un attraversamento silenzioso verso le profondità del mio mondo interiore.


C’è qualcosa di quasi soprannaturale nel lento moto del barchino. L’uomo — il traghettatore del lago di Fimon — guida il mezzo a remi con apparente leggerezza, intonando un canto malinconico. Mi viene il sospetto che non sia tanto il remare delle sue braccia esili a muovere la barca, quanto piuttosto quel canto che sembra darle vita. Presto attenzione alle parole sussurrate al vento: narrano la storia di quel luogo e delle anime che lo abitano al calar del sole. Dalle acque scure del lago emergono, cercando di salire, spinte da un desiderio intenso di salvezza. Dal canto intonato comprendo che quelle anime non sono altro che l’eco di pensieri, promesse, grida soffocate e turbamenti nascosti di chi, durante il giorno, vive il lago e che, di notte, si dibatte nel tentativo di trovare il legittimo proprietario e ristabilire un equilibrio da tempo perduto.


Osservo attentamente intorno a me, alla ricerca di quell’anima che custodisce i frammenti del mio essere. Nel fluire disordinato di anime che cercano riposo, mi imbatto, inesorabilmente, nelle vicende di cui esse sono custodi. Due anime, avvinghiate l’una all’altra, emergono dalle acque scure, suggellando le loro promesse con un bacio che mescola intensità e gelo. Ma in una delle mani, nascosto tra le pieghe di un’apparente dolcezza, brilla un coltello avvolto in velluto — presagio di un tradimento che già si annuncia. 


Un’altra anima tenta di sollevarsi dalle profondità del lago, con uno sforzo disperato e un coraggio che sfida l’abisso. Eppure, qualcosa la trattiene, una forza invisibile che la spinge indietro, un peso ancorato alla sua esistenza che la trascina lentamente verso il fondo. Il traghettatore mi guida a cogliere il senso profondo di quella lotta: è il peso di una malattia implacabile, una compagna muta e costante che, con il passare dei giorni, la spinge sempre più giù, verso un lento e inevitabile naufragio.


Un’altra anima si dimena in quelle acque, e ciò che questa volta cattura la mia attenzione è la giovane età impressa nei suoi lineamenti. Non ha ancora la forza di spingersi con le proprie braccia, e dalla sua bocca si leva un urlo disperato, alla ricerca di aiuto. La tenerezza di quella scena mi muove a supplicare il mio traghettatore di avvicinarsi per soccorrerla. Ma vengo esortata a mantenere la calma e a non distogliere lo sguardo da quel grido, ascoltandolo con profonda attenzione. Il richiamo di quel grido disperato si riflette soltanto su una sponda della valle che abbraccia il lago: quell’anima è l’espressione viva del desiderio di un figlio, un desiderio che però resta senza eco dall’altra parte.


Mentre il barchino avanza silenzioso, sento il peso di ogni storia, di ogni anima che attraversa queste acque. In lontananza, il mio sguardo si posa su un’anima diversa dalle altre, tranquilla e pacata nel suo emergere. Il traghettatore mi spiega che è proprio questo il segno distintivo di quelle anime i cui proprietari hanno raggiunto una profonda consapevolezza di sé, trovando una quiete che riflette la loro ritrovata armonia interiore. 


Poi, un istante di sospensione: il paesaggio sfuma, il suono si attenua, e il freddo dell’aria mi prende. Un rapido risveglio e la realtà si fa chiara, distinta. Apro gli occhi e mi ritrovo sdraiata nell’erba, la pelle segnata dal sudore ormai asciutto della corsa conclusa. Nella mente rimane vivido il ricordo di quel viaggio. Dentro di me qualcosa è cambiato: la traversata non è stata solo un passaggio fisico, ma un viaggio dentro me stessa, un invito a riconoscere le ombre, i desideri e le paure che abitano il mio animo.


Scritto ed immaginato da Ester Conte

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